venerdì 4 ottobre 2013

Postcards from Italy

Continuo a pensare alle cartoline.
Il cielo sereno, innanzitutto. Poi un bellissimo, smisurato, mare trasparente. Qualche onda sulla battigia. Poco più in là, un paio di lidi. Ombrelloni, seggiole, pedalò. Gabbiani che volano bassi. Sabbia fine fine, quasi polvere. Puntini lontani in movimento, persone.
Ieri pomeriggio mi sono immersa in uno di questi pezzetti rettangolari di cartoncino, e ho iniziato a camminare sulle spiagge, cercando di ascoltare la voce delle acque persa fra i bagnanti.
La prima onda era inquieta, strepitante, ed è solo corsa a distendersi a riva.
La seconda mi ha recitato una poesia:

oggi, in una bibbia di sale,
hanno scritto che annegare
è come stendersi nel mare
ma io so che fa più male

La terza onda singhiozzava.
Giunta la quarta, poteva dirmi, ma soltanto per sentito dire, di gente a migliaia in partenza dall’altro lato della costa.
Finalmente, la quinta onda era loquace, e sembrava intendersene di politica. In lontani litorali, sotto le bombe e i regimi di sfruttamento di massa, uomini corrotti mettono, in compenso di milioni, uomini disperati su barchette malconce; il carburante va fino a un certo punto, poi svanisce, lasciandoli preda delle correnti, sicché soltanto qualcuno arriva, qualcuno scompare, qualcuno nuota; se toccano terra senza un regolare contratto di lavoro, in pratica se non sono assoldati dai flutti, allora altri uomini, in divisa, li conducono in prigioni temporanee; diventano uomini disperati e rifiutati, incapaci di andare avanti o indietro, perché anche ricompiere una traversata avrebbe un prezzo troppo alto: ogni atto del loro corpo in territorio straniero è illegale, che si respirare, rapinare, parlare o camminare.
L’ultima onda era ormai un lungo silenzio, una voce flebile e stanca. Mi ha detto prima che dire era impossibile e poi: “tuffati se vuoi vedere”. Proprio così, “tuffati se vuoi vedere”.
E io mi sono tuffata, e dire del mondo di storie perdute sul fondo del mio mare, del suo orrore, era proprio impossibile come mi ha bisbigliato l’onda; ma tuffarsi, per quanto difficile, può farlo chiunque: basta anche solo tuffarsi negli occhi di un uomo, di una donna, dei bambini sopravvissuti, sguardi che ristagnano in un centro di accoglienza, permanenza, smistamento e disumanità.
Così, da allora, continuo a pensare alle cartoline dall’Italia che vorrei mandare ai responsabili, dal più potente al più insignificante.
Per prima cosa, il cielo azzurro dopo una tremenda tempesta.
Poi un bellissimo, sterminato, mare limpido.
Le onde stanche che riposano e lasciano in pace la franchigia.
Qualche lido, chiuso perché siamo in ottobre.
Ombrelloni, seggiole e pedalò tutti nei ripostigli abusivi in calcestruzzo.
Fra i grani di sabbia leggera, vestiti stracciati, oggetti usurati, occhiali, lamiere, giubbotti, soldi marci, un barcone rattoppato.
Gabbiani che volano veloci, approfittando dell’assenza di vento, a centinaia.

Infine puntini lontani in movimento, condotti dalle onde, persone, persone morte.

Ludovica Battista

mercoledì 25 settembre 2013

Via Castellana Bandiera: il valore dell’integrità


Via  Castellana Bandiera è una strada dove in due non ci si passa. O io, o tu. Via Castellana Bandiera è il pettine a cui vengono tutti i nodi, o li sciogli uno ad uno o resti intrappolato nella ragnatela del non senso.
La storia di Rosa, Clara e Samira è infatti una storia che non ha senso, ma in quanto tale è la ventura delle venture, è la resa dei conti fra te e te, e fra te e l’altro.
I due mondi sono quelli di Rosa e Clara, coppia lesbica in crisi, e quello di Samira, donna anziana frantumata dal dolore della perdita della figlia e comandata da un genero sfrontato e maschilista. Rimangono incastrate in una via, dove il senso è doppio ma c’è posto solo per uno. Basterebbe che una delle due facesse retromarcia ma la caparbietà di entrambe le lascia una contro l’altra in un duello estenuante.
Quante volte per  raggiungere l’obiettivo  dobbiamo pensare alle manovre che traccino il filo rosso della nostra, nostra e solo nostra strada, senza le interferenze della realtà che ci circonda? Sarebbe facile andare dalla A alla Z, ma in mezzo ci sono diciannove lettere e migliaia di combinazioni che danno forma a parole, pensieri, discorsi. Via Castellana Bandiera è un inno  all’integrità. Nella stagione dei compromessi e delle larghe intese queste donne scelgono di essere pure fino in fondo, e non è questione di principio (come accade agli uomini rozzi e speculatori che le circondano) ma è una questione esistenziale.
De Andrè direbbe: morire per delle idee. Porre il limite entro il quale non si può andare avanti significa preservare il nucleo della nostra natura, la parte più profonda di se stessi che non si può rinnegare, la dignità del dire: no, questo no.
Nella stagione dei corrotti Emma Dante ricrea il baluardo dell’incorruttibilità, della lotta fisica e psichica alla difesa della propria identità. Lo scontro onesto ed eroico delle due donne arriva ai limiti dell’assurdo creando un mondo surreale e fuori dal tempo in cui, spogliati di tutto, non resta che l’io e il non io. Tuttavia la dialettica senza fine afferma due pensieri monolitici che finiscono non per trovare una sintesi, ma per lo meno un equilibrio: riescono a fare il punto della loro vita. Via Castellana Bandiera infatti da un vicolo cieco senza scampo progressivamente si allarga trovando posto per entrambe, un possibile doppio senso, e infine diventa un grande viale dove correre assaporando le nuove prospettive nate dal dramma. Lo scontro titanico ha aperto infinite possibilità e gli spazi della strada prendono respiro: la corsa conclusiva degli abitanti di via Castellana Bandiera è la catarsi che libera dalla frustrante e angosciosa gabbia dei propri limiti.


Lucia de Marco 

giovedì 11 luglio 2013

Privati nei Beni Culturali? Si, ma non per profitto.

La notte dei beni culturali italiani è proprio quella in cui tutte la vacche sono nere.  Il problema rimbalza fra un governo e l’altro e  seguendo la linea Bondi-Galan-Ornaghi siamo giunti a toccare  il fondo del baratro.  Sotto questo inqualificabile triumvirato i tagli alla cultura hanno raggiunto i massimi storici. Il nuovo ministro Bray cerca di barcamenarsi alla men peggio: fra le mani ha solo i danni accumulatisi in anni di degrado, indifferenza, abbandono.  
Nello squallido panorama politico italiano di quando in quando riemerge il problema Pompei,  qualche slogan, qualche luogo comune, appelli di intellettuali sdegnati : il contesto perfetto per strumentalizzare un’emergenza nazionale e scrivere fiumi di retorica alla maniera del piccolo politico italiano alla ricerca di consensi.
Abbiamo gridato allo scandalo per la nota e ironica frase del ministro Tremonti, <<Fatevi un panino con la Divina Commedia>>, a cui giustamente abbiamo risposto con un altro slogan, <<Con la cultura si mangia>>.  Ed è proprio dell’interpretazione di questo slogan che mi preme dire, poiché tocca un punto cruciale per il destino del nostro patrimonio artistico, ovvero l’intervento dei privati nei beni comuni.
Nelle condizioni attuali, è impossibile non ammettere che le offerte milionarie dei privati non possano che dare ossigeno ai nostri musei e siti archeologici agonizzanti. Ma dove sta il limite? Cosa intendiamo per mangiare con la cultura?  Qual è il confine fra la nobile considerazione del patrimonio artistico come risorsa economica della collettività e la mercificazione dell’arte stessa?
Il confine è molto labile a quanto pare, dati gli ultimi discutibili avvenimenti  nella stessa culla della cultura italiana: Firenze.  <<Gli Uffizi sono una macchina da soldi, se li facciamo gestire nel modo giusto>>, sono parole del sindaco Matteo Renzi proprio in queste ore ancora al centro delle polemiche riguardo la festa privata della Ferrari sul Ponte Vecchio, sostanzialmente sequestrato al libero passaggio dei cittadini. Ed è ancora a Firenze che lo scorso gennaio la Sala dei Cinquecento è divenuta la location di una sfilata di moda di Ermanno Scevrino, gli Uffizi invece di una sfilata di Stefano Ricci in stile “neocoloniale” con tanto di tribù di Masai in apertura (importati come bestie da circo) che sventolavano lance e scudi fra i quadri rinascimentali. Gli Uffizi ancora, sono stati affittati per una intera giornata  in onore di una visita privata di Madonna, sottraendo il museo alla collettività. Piazza Pitti e Piazza Ognissanti chiuse ai fiorentini poiché “sala ricevimenti” di un matrimonio di un magnate indiano. Ancora sfilate di  moda e questa volta la location è la chiesa sconsacrata (ma tutt’ora appartenente alla Curia) di Santo Stefano al Ponte, sempre a Firenze, dove modelle seminude hanno posato sull’altare, luogo del sacrificio eucaristico per secoli e dove giaceva una nota pala del Beato Angelico.  Spostandoci altrove possiamo vedere il nostro Colosseo diventare un brand targato Della Valle, serate mondane private nella Galleria Borghese, Piazza del Pleibiscito a Napoli usata come location del concerto di Bruce Springsteen, accessibile ovviamente solo a pagamento.  Sono solo alcuni esempi di come il concetto di cultura intesa come “risorsa economica”, scada facilmente in una pure e semplice mercificazione. Pieghiamo anche il nostro patrimonio artistico alla logica del profitto, nascondendo il tutto sotto presunti mecenatismi.
Tuttavia è proprio il mecenatismo, nella sua forma originaria che può essere l’ago della bilancia, la partecipazione di un soggetto privato del tutto disinteressato che “rasenta il dono e trova nel prestigio del mecenate stesso la sua ragione d’esistenza”. Un esempio?
Il magnate tedesco Wurth finanzia il restauro della Cappella Palatina di Palermo. Cosa vuole in cambio? Nulla, solo la realizzazione di una mostra della sua splendida collezione privata di opere di Christo e Max Ernst. L’industriale Della Valle invece finanzia in restauro del Colosseo in cambio di diritti di immagine per 15 anni, cioè una sorta di contratto che ha nella pubblicità la sua unica ragione d’esistenza. I soldi di Wurth sono per l’arte, i soldi di Della Valle torneranno a lui stesso tramite la gestione privata del più importante monumento italiano. L’aurora dei beni culturali italiani la vedremo dunque nascere solo quando si imparerà a scegliere.

Lucia de Marco 

Fonti:
-"Beni culturali sempre più privati" di Tommaso Montanari, Il Fatto Quotidiano, 6 Luglio 2013
-"Patente a punti" di Marcello Faletra, Artribune, 29 Giugno 2013
-"Beni culturali anche il Ministero è moroso: bollette non pagate per 40 milioni", Repubblica, 6 Luglio 2013
-"Lo strillone: Bondi, Galan e Ornaghi avrebbero affossato anche la Firenze del Riascimento", di Francesco Sala, Artribune, 6 Maggio 2013


martedì 25 giugno 2013

L'utopia della privacy

In fin dei conti lo sapevamo già che questo polverone avesse l’insensatezza delle battaglie già perse. Il fatto: lo scorso 6 Giugno il Guardian  ha pubblicato i dettagli del programma di sicurezza Prism per la lotta al terrorismo per conto dell’NSA, organo di sicurezza dell’intelligence americana. Lo scoop ha avuto risonanza mondiale; l’NSA aveva accesso ai tabulati della compagnia telefonica Verizon, e le telefonate dei cittadini americani potevano essere messe sotto controllo. A rincarare la dose è stato il Washington Post che ha rivelato che Prism sarebbe <<entrato nei server di nove colossi della rete per estrarne audio, video, fotografie, email, documenti passsword>>: Facebook, Google, Yahoo, Microsoft, PalTalk, Aol, Youtube, Apple e Skype. Dalla Silicon Valley i giganti della Rete si sono difesi dichiarando che nessuno abbia messo sotto la lente i server e che i dati degli utenti siano stati concessi nel <<rispetto delle leggi>>.
L’eco della notizia ha provocato  non poco imbarazzo al Presidente Barack Obama, costretto a giustificare la vicenda: <<nessuno sta ascoltando le vostre telefonate>> ha garantito. L’intelligence infatti lavorerebbe elaborando i metadati, cioè controllando solo i flussi delle comunicazioni. Niente in realtà si è svolto forzando le architetture costituzionali del Paese: il Congresso sapeva e aveva riapprovato il Foreign Intelligence Surveillance Act (Fisa) che autorizza il Prism.
La talpa è Edward Snowden, ex tecnico della Cia, che avrebbe provocato la fuga di notizie per <<difendere la privacy di tutti>>.
Sinceramente, non si comprende come la notizia abbia potuto suscitare così tanto sgomento. Non è solamente l’ennesima riprova di un dato che abbiamo già inconsciamente rimosso?  Siamo spiati.
Senza troppa enfasi o vittimismo abbiamo varcato il limite già da un pezzo.
Attraverso il nostro profilo Facebook possiamo scoprire dove passano il sabato sera i nostri amici, tenerci costantemente informati sullo stato sentimentale di vecchi flirt, conoscere città di residenza, gusti musicali, libri preferiti e orientamento religioso e politico del nostro medico curante o di un professore.
Chi si aspettava che le multinazionali avrebbero cominciato a prevedere le tendenze invece che assecondarle ha avuto ragione: risale allo scorso febbraio un’indagine del Guardian che denuncia come la Rayethon, colosso della Difesa americano, avrebbe sviluppato un software per tracciare gusti di interi gruppi sociali attraverso i social media. L’essenza dei nostri desideri in un algoritmo; la persona trasformata  in un flusso coerente di informazioni: praticamente una nuova ontologia. Il soggetto desiderante diventa l’oggetto di una passione, dei suoi “interessi”, incasellati entro campi già stabiliti da qualcun altro e riproducibili su scala – la fenomenologia degli hobby: come trascorre Lei il suo tempo libero? Cucina, giardinaggio? La preghiamo di segnare la casella corrispondente.
E’ il prezzo da pagare della digitalizzazione dei rapporti: inevitabilmente rinunciamo alla privacy per cedere il passo alla “condivisione”.
Ne nasce un enorme paradosso. Per riconquistare uno spazio di libertà ho bisogno di sottrarmi al gioco della partecipazione e rimuovere informazioni.  Ne ”L’ingenuità della Rete” Morozov ci ricorda come ad esempio in Cina e in Russia gli spazi virtuali siano utilizzati per deviare l’attenzione dei giovani verso l’intrattenimento. Non è  un caso allora che il sistema vada in cortocircuito quando la condivisione interessi grandi rivendicazioni collettive.
Credo sia inutile a tal punto invocare un maggiore distacco. Sapere tutto di tutti è asfissiante, ma chi ha ancora la forza per sentirsi fuori dal mondo?


Alberto Donadeo

Fonti:

Usa, Agenzia per la sicurezza sotto accusa «Spiati i giganti del web e le carte di credito»
Corriere della Sera, Redazione online 6 Giugno 2013

Obama:  << Sorveglianza legale e limitata>>
Il presidente Usa sottolinea di avere l’appoggio bipartisan del congresso
Corriere della Sera, Alessandra Farkas 8 Giugno 2013

NSA collecting phone records of millions of Verizon customers daily
Top secret court order requiring Verizon to hand over all call data shows scale of domestic surveillance under Obama
The Guardian, Gleen Greenwald 6 Giugno 2013

Datagate, giganti del web nel programma Prism. Nsa negoziò con Google, Facebook, Aol e Apple

La Repubblica, Redazione Online 8 Giugno 2013

lunedì 22 aprile 2013

PD: la parabola dei perdenti a vita

Tralascerò i rituali preamboli perché i fatti sono noti a tutti, e andrò dritta al punto: sabato abbiamo assistito in diretta alla ennesima disgregazione della sinistra italiana, e alla resa (non formale ma materiale) della Repubblica Parlamentare;  e  l’incapacità di mediazione fra popolo e palazzo è il dato essenziale per comprendere entrambe le disfatte. Il Parlamento non è  più il collante fra paese reale e paese legale, dunque urge che  la nazione torni ad autogovernarsi eleggendo direttamente la più alta carica dello stato. La corte dei miracoli guidata da PD, Scelta Civica e PDL in processione al padre generoso è una sorta di ammissione di impotenza. E il padre, al limite fra reale generosità e il reiterato errore di viziare i figli, accetta,  pur non avendo elisir di lunga vita. Il punto è dare un nuovo assetto istituzionale a questo paese,  per sua natura immobile nella storia fra dittature o municipalismi: una democrazia stabile in Italia è un ossimoro. Un Parlamento incapace, un “presidenzialismo di fatto” e dunque il funerale dei partiti: il PD riposi in pace, ma la sua è solo la cronaca di una morte annunciata. E’ vero: ci ho sperato,  ho creduto  (e credo ancora) nella buona fede di Pier Luigi Bersani, ma la campagna elettorale “con le mani in tasca” ha solo ridisegnato la ben nota parabola dei perdenti a vita. Ha ragione Renzi, alla sinistra piace perdere, ha ragione Civati, la sinistra odia la sinistra, ha ragione Travaglio: siete coglioni o siete complici?. Ma nel desolante processo di autodistruzione del PD, finalmente sono venuti al pettine tutti i nodi di questo partito che ha soffocato differenze troppo profonde per essere trascurate. Il PD è una compagine disomogenea che è esplosa al punto di negare se stessa col gesto infame che ha tradito Prodi. Valicato (ancora una volta) il limite del “mai con Berlusconi”, ecco riemergere  tutte le contraddizioni. La base ancora illusa e delusa, manifesta, reclama dignità, brucia le tessere, occupa le sedi. “Perché no Rodotà”, è la domanda di tutti, ed è il punto della questione. E’ lo spartiacque che delimita la fine degli interessi di parte, esattamente alla stregua del “Perché no la Boldrini”, “Perché no Grasso”: le domande degli elettori del M5S, affatto esente da queste logiche. Come ha giustamente proposto il Manifesto l’auspicio è un anno zero della sinistra. La scissione del PD non è un rischio, è doverosa per un elettorato puntualmente ingannato, che vota in negativo, vota il famigerato “meno peggio”.  Mentre in alto si conferma il presidente del nuovo inciucio, il PD ceda “le insegne imperiali” alla base, solo da qui poi, si può ricostruire.


Lucia de Marco

venerdì 8 marzo 2013

8 Marzo, la storia che non ti aspetti


Perché una “festa della donna”? C’è forse una “festa dell’uomo”? E’ in fondo, come San Valentino, solo un’occasione per regalare un po’ di fiori e cioccolatini, una cenetta fuori e poi tutti felici (o infelici) come prima?
No! E’ tutto – e dico tutto – sbagliato.
Partiamo da una premessa fondamentale: se vogliamo dare il giusto nome alle cose, stiamo parlando della Giornata Internazionale della Donna, niente feste e pasticcini.
Ma certo, potrebbe esclamare qualcuno, l’8 marzo si ricorda la morte di centinaia di operaie nel rogo della fabbrica di camicie Cotton avvenuto nel 1908 a New York. Si, un po’ di popcorn, una bibita gasata e sarebbe veramente un bel film. Peccato che non sia mai esistita una fabbrica Cotton, a New York, nel 1908. Per fortuna che l’8 Marzo 1908, non ci fu nessun rogo. E allora cos’è questo 8 Marzo? 08-03.…mi sa che questa volta i Maya non c’entrano, magari la kaballah ebraica?! Dai, non scherziamo.
Siamo in verità nel 1917, a San Pietroburgo e – avviso i deboli di cuore – c’entrano un pochino i comunisti. Le donne della capitale russa guidarono una grande manifestazione che rivendicava la fine della prima guerra mondiale: la fiacca reazione dei cosacchi inviati a reprimere la protesta incoraggiò successive manifestazioni che portarono al crollo dello zarismo, ormai completamente screditato e privo anche dell’appoggio delle forze armate.
E così l’8 marzo 1917 è rimasto nella storia a indicare l’inizio della «Rivoluzione russa di febbraio» (secondo il calendario giuliano allora in vigore in Russia, eravamo al 23 Febbraio). Per questo motivo, e in modo da fissare un giorno comune a tutti i Paesi, il 14 giugno 1921 la seconda Conferenza Internazionale delle Donne Comuniste, tenuta a Mosca una settimana prima dell’apertura del III congresso dell’Internazionale Comunista, fissò all’8 marzo la «Giornata internazionale dell’operaia».
Non è infatti un caso che la prima giornata internazionale della donna in Italia venne organizzata dal Partito Comunista Italiano, nel 1922. Come non è un caso che pochi anni più tardi, sempre in Italia, venne pubblicato sul periodico ‘Compagna’ una lettera di quel cattivone di Lenin che ricordava l’8 marzo come Giornata internazionale della donna, la quale aveva avuto una parte attiva nelle lotte sociali e nel rovesciamento dello zarismo. Aspetta un attimo, stai correndo troppo! Vorresti dire che ogni anno festeggiamo la “Giornata internazionale dell’operaia” indetta dall’Internazionale Comunista? Vuoi dire che sinistra, centro, destra, su e giù ogni anno si uniscono nelle celebrazioni di una festa comunista? No. Sarebbe stupido e pretenzioso attribuire un tema delicato quale il riconoscimento del ruolo sociale della donna ad un singolo schieramento politico, rendendolo un possesso esclusivo. Probabilmente per questo, insieme alle tragiche conseguenze della seconda guerra mondiale e della divisione del globo, si è “preferito” sorvolare sull’origine storica della celebrazione, per renderla la più universale e condivisibile possibile.
Non è di certo per scrivere un apologo del comunismo che ho scritto quest’articolo. Non è nemmeno per denunciare manipolazioni storiche, non è il mio campo. Penso però che un elemento sia assolutamente necessario ricordare riguardo l’origine storica della “festa della donna” (spero che ormai possiamo attribuire il giusto significato a questa dicitura che – diciamolo – è nettamente più comoda).
La festa della donna non è nata in un salotto di intellettuali. Non è nata dai romanzi rosa, non è nata tra le righe del dolce stil novo. E’ nata in piazza, durante la guerra, tra le truppe schierate pronte a caricare. E’ nata nelle fabbriche, dove era una quotidiana lotta, non solo per iniziare il lavoro, ma anche per finirlo in vita. Quindi la festa della donna non è il trionfo del buonismo e del politically correct. Non è una “concessione del sistema maschilista al sesso debole”. E’ stata una conquista, una battaglia, con i suoi morti, i suoi feriti, la sofferenza e la paura. Tra l’altro, non una conquista unicamente dei propri diritti, della propria affermazione sociale, ma una battaglia combattuta – come nell’episodio dell’8 Marzo 1917 - per la vita e la libertà di tutti, uomini e donne, senza distinzione. Quindi, invece di regalare alle donne fiori, cioccolatini, mimose, invece di cercare disperatamente di guadagnarsi un “grazie”, sarebbe forse meglio che fossimo noi uomini a dire, sinceramente: “Grazie!”

Federico Labriola 

Cara Virginia


“Chi mai potrà misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando rimane preso e intrappolato in un corpo di donna?” . E chi mai d’un  operaio,  d’ un manager, di un musicista, di uno studioso, di un professore, di un politico, chi mai potrà misurare l’impetuoso moto dei sentimenti , delle passioni più profonde, quando rimangono intrappolati nel corpo di una donna? Virginia Woolf cento anni fa indagava sulle donne e la scrittura. Cento anni fa Virgina Woolf sognava donne ciascuna con una propria stanza, perché è quella stanza, sola, intima, autonoma,  la chiave che apre l’ispirazione del poeta. Donne libere in quanto indipendenti, donne libere in quanto sole col proprio lavoro e la propria coscienza, e tutto il resto fuori.
Cent’anni dopo siamo ancora qui a sognarci, Virginia.  Cosa vedo?
Vedo donne che votano, donne con giacca e pantaloni, donne che studiano,  donne che lavorano, donne in politica, donne scrittrici, donne senza mariti.
Eppure Virgina, quella “stanza tutta per sé” le donne ancora non ce l’hanno. Se quella stanza era indipendenza e libertà, una donna non è libera se non può smettere di amare con la paura di morire, se per firmare un contratto deve allargare il decolté, non è libera se per quella strada buia non può tornare tardi a casa, non è libera se indossa la minigonna e ..“se l’è andata a cercare”, se tace in imbarazzo a motteggi volgari, non è libera se essere madre e lavoratrice non è ammesso nella stessa vita. Ed è così che il poeta, l’operaio, il manager, il musicista,  lo studioso, il professore, il politico, sono in trappola nel corpo femminile.  Il nostro corpo è ancora il limite invalicabile per raggiungere “quella stanza”.

Oggi la città è costellata di punti gialli e verdi, batuffoli di fiori fra le mani e sul petto delle donne. Auguro a tutte voi che abbiate “una stanza tutte per sé” dove riporre e ammirare i vostri doni. E  forse insieme, uomini e donne,  realizzeremo i sogni di Virginia.
Oggi è l’otto. Ma noi lottiamo tutto l’anno.

Lucia de Marco

martedì 26 febbraio 2013

A colpi di tweets, Grillo conquista l'Italia


Poche ore dalla chiusura dei seggi, ed è caos. L’Europa  a bocca aperta, il giaguaro con le macchie tutte al suo posto, Grilli parlanti che da voce della coscienza guidano la baracca, bandiere rosse calpestate, rivoluzioni civili che neanche arrivano a costruire la barricata. Analisi  strutturate sugli scenari futuri impegnano i mass media, motivo per cui in questa sede ci limitiamo a sensazioni immediate e considerazioni generali.
 Nessun governo e in apparenza nessun vincitore, ma in fondo un popolo che parla, e,  come suggerisce Serra,  le nuove generazioni di cui a lungo si è lamentato il silenzio non hanno timidamente alzato il dito, ma togliendo la parola ai “vecchi”, urlano prepotentemente la  fine delle  battaglie ideologiche e  degli  schieramenti tradizionali.  Il Movimento 5 stelle è il primo non-partito con un non-statuto che entra in Parlamento, una comunità digitale che sceglie con un clic, senza sedi e circoli ufficiali, paragonabile alla rivoluzione della rete senza fili. Vincoli virtuali, i vecchi “fili rossi” tagliati alla radice, il web nella forma e nella sostanza: mi piace, condividi, elimina, twitta.  Profondità, analisi critica, dialettica, dialogo, sfumature, qualità, formalità, istituzione: un lessico obsoleto per la nuova politica che sia afferma informale, semplice, orizzontale, priva di congiunzioni e subordinate, paratattica, antiumanistica.
A partire da queste riflessioni generali nascono spontanei due grandi quesiti:
1) E’ possibile che un non-partito possa governare all’interno di un’istituzione figlia del 900 come il Parlamento della Repubblica, e che dunque la nuova sostanza della politica possa adattarsi alla forma del secolo precedente?
2) Questa nuova sostanza politica è di respiro internazionale o è frutto di un’eccezionalità italiana?
Rispondere richiede un’analisi e tante parole, non può bastare un  tweet:
Il M5S di primo impatto è essenzialmente volgare; sensazione dovuta più alle origini di comico del leader e al suo lessico scurrile che all’atteggiamento di chi in realtà riempie le piazze e le liste dei candidati. Grillo a colloquio con la Merkel  o Napolitano. Questi  nomi uno accanto all’altro suonano come un ossimoro. Tuttavia il Movimento 5 stelle è il primo “partito” d’Italia, i cui onorevoli e senatori siederanno fisicamente in parlamento, e lo faranno in giacca e cravatta,  parlando con discorsi strutturati e senza ” vaffanculo”. Come comporre queste due realtà? La risposta non è qui ma nel futuro del movimento. Ora che si è invischiato negli scranni del parlamento, il primo partito d’Italia  farà solo ridicola campagna d’opposizione, senza andare mai al governo?  Serietà e responsabilità rientrano nel linguaggio obsoleto? Il dubbio metodico che distrugge tutte le certezza sarà capace di costruire e proporre alternative concrete per il Paese?
Le prime reazioni del leader non sono incoraggianti: Il rifiuto totale di alleanze e  collaborazioni, e il perpetuarsi di battute ridicole non in linea col clima di emergenza nazionale, non fanno sperare ad una (seppur minima)  formalizzazione del movimento. L’impossibilità di conciliazione costringe ad  ipotizzare una preoccupante incompatibilità di fondo fra questo nuovo modello politico e la vecchia istituzione. 
Allargando il campo visivo, mi domando allora quanti simil-Grillo siano spuntati o spunteranno in Europa, se questo tipo di modernità sia una direzione omogenea della storia o se invece l’Italia presenti  elementi di eccezionalità.
Demonizzare la classe dirigente nazionale ed europeista alleata con le lobby finanziarie, restaurare frontiere economiche nazionali,  ridare al popolo “ciò che gli è stato rubato”: questi i punti fondamentali dei movimenti di protesta europei.  Qualcosa di simile la ritroviamo nel Partito Pirata diffuso in tutta Europa ma in particolare in Germania dove ha superato la soglia di sbarramento, e il cosiddetto Partito X nato in Spagna con tre obiettivi ben precisi: wikigoverno,  voto permanente e trasparenza. Ancora in Francia l’avanzata di Fronte Nazionale di Marie Le Pen, o in Olanda del Partito Popolare per la Libertà.  In questo quadro il Movimento 5 stelle ha delle sue specificità che nascono dalla singolarità del panorama politico italiano, e che lo distinguono dai movimenti citati, pur attingendo da un bacino ideologico comune.  A partire da un quadro europeo abbastanza omogeneo che vede la ribalta di questi nuovi soggetti politici,  tuttavia è proprio in Italia che per la prima volta un movimento popolare di protesta non solo raggiunge la soglia di sbarramento ma addirittura diventa il primo partito nazionale.  l’Italia costituisce un caso senza precedenti nella storia dell’Unione Europea.  Senza trarre conclusioni né drammatiche né rassicuranti, attendiamo gli sviluppi di questo ingorgo istituzionale, politico ed economico, coscienti però del cambiamento epocale che sancisce il passaggio a questa Terza Repubblica.

 Lucia de Marco 

venerdì 22 febbraio 2013

Grillo e la retorica da guerra civile



“Arrendetevii!” è l’urlo di Beppe Grillo a Milano. “Arrendetevi, siete circondati dal popolo italiano. Uscite con le mani alzate. Nessuno vi toccherà ”.
Così il leader del Movimento 5 Stelle ha infiammato i 35000 accorsi in Piazza Duomo lo scorso Mercoledì. Solito repertorio di retorica gonfia anche sul suo blog dove consiglia ai politici di abbandonare le poltrone “come gli americani sui tetti di Saigon nel 1975”. O ancora “È una guerra. Abbiamo le macerie esattamente come dopo la seconda guerra mondiale” l’avvertimento che figura sul suo profilo facebook.
E’ sempre più ricorrente il richiamo al gergo militare da parte dell’ex comico genovese. Una tronfia violenza verbale che non risparmia nessuno, dal Presidente Mario Monti al Pdl, sino al “Pd meno elle”. Al di là degli slogan, sotto il velo un po’ arrogante e goliardico della campagna elettorale del “MoVimento”, si intravede un vuoto di cultura difficilmente colmabile. E da sempre la retorica populista prova a riempire questo vuoto con l’appello alle armi, l’urlo del “O con noi o contro di noi”.
Non abbiamo qui la pretesa di giudicare la validità della proposta politica dei grillini, le ragioni del dissenso o le possibilità di una democrazia virtuale. E’ il “lessico” che vorremmo esaminare, e non, vendolianamente, la “narrazione”.
Fin dai primi atti della sua ascesa Grillo si è sempre contraddistinto per una fortissima carica eversiva; la contestazione contro l’attuale classe dirigente e più in generale contro lo stato della nostra democrazia è stato il suo pane. Un aspetto che è esploso nell’ultima campagna elettorale quando, più di tutti gli altri candidati, Grillo ha cercato il contatto fisico con l’elettorato. Nelle Piazze stracolme, il grillo, più che frinire, abbaiava: l’uso di un tono di voce più alto, il frequente ricorso all’invettiva ben si prestano a carpire l’attenzione di un elettorato sempre più sordo alle promesse dei politici. Non a caso, mentre la disaffezione verso la cosa pubblica avanza tra i più giovani, Grillo raccoglie proprio tra questi i maggiori consensi. In un articolo del 4 Febbraio scorso Renato Mannheimer riferisce che tra gli elettori della fascia di età compresa tra i diciotto e i ventitre anni il Movimento 5 Stelle conquisti quasi un terzo dell’elettorato, superando di poco il Pd. 
Certamente anche la scarsa confidenza di Beppe Grillo con la stampa nostrana rientra in questo contesto: quasi agli antipodi l’incedere cerebrale di Mario Monti di fronte ai giornalisti rispetto a quello di Grillo che nell’ultima campagna elettorale ha nell’ordine cacciato un cameraman di Rai3 dal palco di un comizio, dato forfait all’intervista programmata per l’emittente Sky e poi escluso le troupe (fatta eccezione per i giornalisti stranieri e SkyTg 24) dal backstage del palco di Piazza San Giovanni. Molto più conciliante è invece il rapporto con la stampa straniera; ultima è l’intervista concessa alla CNN in cui rilancia l’ipotesi di un referendum sull’euro. Inoltre pur avendo gran parte degli organi di stampa a proprio sfavore, Grillo ha indirettamente goduto di una notevolissima attenzione da parte dei media, anche grazie a gesti scandalosi come la traversata dello Stretto.
In sostanza il ricorso all’insulto non ha fatto altro che polarizzare lo scontro sul terreno del dibattito: da una parte l’attuale classe dirigente, e dall’altra i cittadini, l’anticasta, pronta a liberare finalmente dai suoi mali la democrazia. Un esperimento che, quasi una nemesi storica, ricorda gli appelli contro il pericolo comunista lanciati da Berlusconi. E a questo risulta funzionale anche il ribaltamento delle classiche categorie della politica: non esistono più la Destra e la Sinistra; ci sono i cittadini e l’Ancien Regime, e infatti i militanti di Casa Pound non debbono essere esclusi. Stando ai sondaggi è stata una tecnica vincente, che mette nell’angolo tutti i partiti e che propone la scelta del movimento come altra, un di più, per “mandarli tutti a casa”. 
Ci restano tuttavia ancora tanti dubbi. La retorica da guerra civile sarà anche un ottimo mezzo per guadagnarsi un po’ di voti, ma è in se stessa una scelta antidemocratica: nella vita, come in politica, non esistono soltanto il bianco e il nero, il giusto ed il marcio che coesistono in tutti gli schieramenti politici con varie sfumature. E in fondo ridurre la scelta ad un sì o ad un no sarebbe fin troppo semplice…

Alberto Donadeo


Vota ad occhi aperti, bacia ad occhi chiusi



Eccoci, ci siamo. Dopo tante parole, accuse reciproche, promesse e giuramenti, siamo arrivati al momento fatidico del voto. E’ stata una campagna elettorale molto più aspra rispetto al passato,  sia per l’esiguità del tempo che per il numero degli indecisi veramente alto. C’è chi ha promesso il dimezzamento dei parlamentari, chi ha promesso l’abolizione dell’IMU e c’è chi non solo ha fatto questo ma ha promesso addirittura di restituirla. E poi c’è chi ha promesso 4 milioni di posti di lavoro in 4 anni, chi ha promesso un assegno per tutti, chi ha promesso un condono, chi ha promesso un referendum sull’euro. Promettere di tutto, questa è diventata la campagna elettorale: cercare di carpire il bisogno più immediato della gente, parlandole alla pancia, assicurando ciò che potrebbe compromettere l’intera stabilità del Paese. E l’elettore, nella situazione disperata in cui versa il paese , è disposto anche a crederci. Parlare alla pancia e non parlare alla testa e al cuore.  Lavoro, meno tasse, e giù di lì…. Quello che daremo sarà un voto importante, come lo è sempre del resto: la situazione del paese è delicata, siamo in piena crisi economica internazionale, ci lasciamo alle spalle un governo tecnico che ci ha imposto tasse  per risanare il bilancio, e dunque  non possiamo permetterci altri sacrifici. Da percorrere invece è la strada della crescita.
Per dare un voto giusto è necessario informarsi, leggere e capire la storia di chi ha governato in questi anni e di chi si presenta a queste elezioni. Chi ha promesso l’impossibile sarà in grado di mantenere quelle promesse? E se ha governato in questi ultimi anni perché non le ha messe in atto prima? E come potrà  mantenere ora quegli impegni, in piena crisi economica?
Nella politica di oggi tra grilli parlanti e cavalieri erranti cercare di capire cosa sia giusto scegliere non è semplice. Dobbiamo fare attenzione ai populisti, a chi accusa l’altro senza prendersi le responsabilità delle proprie colpe. Gli errori e la gestione fallimentare della “cosa pubblica” non sono da attribuire alla Politica in generale, ma ad una parte della classe dirigente in particolare. Non esiste Stato senza politica. Non si può urlare contro un intero sistema rifiutando ogni possibile confronto e dialogo, che è il sale della democrazia. Accanto alla politica dei ladri e dei corrotti, c’è anche la politica di chi si impegna seriamente per il proprio Paese e per il Bene comune, e anche se con l’attuale legge elettorale è difficile, è quella la politica che dobbiamo votare.  Perciò caro amico quello che ti dico non è di votare per quello o quell’altro, ma di capire le conseguenze di queste elezioni. Voglio ricordare lo slogan di una lista alle elezioni universitarie di qualche mese fa : “ vota ad occhi aperti e bacia ad occhi chiusi”, ed  è proprio quello che dobbiamo fare, votare ad occhi aperti, consapevoli delle proprie scelte. Ad occhi chiusi possiamo baciarci e sognare, per quello non c’è mai un limite e mai ce ne sarà (se non ci impediranno anche questo.. )

Francesco Miacola