sabato 29 dicembre 2012

2012: un anno in venti date

13 Gennaio: la nave Costa Concordia naufraga a 500 metri al largo dell'Isola del Giglio, l'incidente ha provocato 30 morti e 2 dispersi.

15 Febbraio: Due fucilieri della Marina Militare italiana uccidono dei pescatori indiani. I militari sostengono di averli scambiati per pirati. Sfiorato l'incidente diplomatico.


4 Marzo: In Russia viene rieletto Vladimir Putin 

13 Marzo: secondo l'ONU le vittime della repressione in Siria sono ottomila.

1 Aprile: Aung San Su Ky vince le elezioni in Birmania ed entra in parlamento. 

6 Maggio: Francoise Hollande vince al secondo turno delle elezioni presidenziali francesi. 

19 Maggio: Brindisi, davanti all'istituto professionale "Morvillo Falcone" vengono fatti esplodere due ordigni. Una ragazza Melissa Bassi, 16 anni muore sul colpo, altre sei ragazze vengono ferite.  


20 Maggio: L'Emilia Romagna, il Veneto e la Lombardia vengono colpite da un terremoto di magnitudo 6.0, con scosse nei giorni successivi di magnitudo 5.0, ventisette le vittime. 

4 Luglio: Gli scienziati del CERN danno l'annuncio ufficiale della scoperta di una particella con caratteristiche compatibili al Bosone di Higgs, detta anche "particella di Dio"


20 Luglio: In un cinema di Denver, alla prima del film "Il cavaliere oscuro, il ritorno", un uomo mascherato, James Holmes, irrompe in sala ed effettua una sparatori uccidendo dodici persone. 

 26 Luglio: Il GIP di Taranto dispone il sequestro senza facoltà d'uso dell'intera area a caldo dell' ILVA, il più grande stabilimento siderurgico d'Italia e secondo in Europa. 


27 Luglio: si inaugurano i trentesimi giochi olimpici a Londra. 


14 Ottobre: Il paracadutista Felix Baumgartner è stato la prima persona ad abbattere il muro del suono col proprio corpo, lanciandosi da un'altezza di 39.045 metri. 



29 Ottobre: l'uragano "Sandy", uno dei più potenti dell'oceano atlantico si abbatte sugli Stati Uniti, New York viene evacuata.


6 Novembre: Barack Obama viene rieletto presidente degli Stati Uniti, vincendo al secondo turno delle elezioni presidenziali americane. 


16 Novembre: Raid su Gaza, missili contro Gerusalemme. La risposta di Israele fa strage di civili. 


29 Novembre: la Palestina diventa Stato Osservatore non membro delle Nazioni Unite 


10 Dicembre: L'Unione Europea riceve il premio Nobel per la pace



14 Dicembre: In una scuola elementare di Newtown in Connecticut a seguito di una sparatoria muoiono 26 persone, fra cui 20 bambini. 


21 Dicembre: Il Presidente del Consiglio Mario Monti consegna le dimissioni. 




domenica 25 novembre 2012

Primarie del centrosinistra, perchè votare.


Un milione e cinquecento mila italiani, alla vigilia di queste primarie, sono elettori di centro sinistra.   Due milioni o più forse, quando stasera alle 20 chiuderanno i seggi.
Votare a sinistra oggi è un voto utile, anche se finirà a ballottaggio.
Votare a sinistra oggi è un voto utile, anche se al ballottaggio vincerà  Renzi, o Bersani.
Votare a sinistra oggi è un voto utile, anche se non ci sarà una maggioranza, ed ecco il famigerato Monti bis.
Votare a sinistra oggi è un voto utile, anche se questa è la legge elettorale.
Votare a sinistra oggi è un voto utile, anche se la Puppato è l’unica donna.
Votare a sinistra oggi è un voto utile, anche se le chiamano primarie del PD, ma  Vendola è di SEL.
Votare a sinistra oggi è un voto utile, anche se registrarvi online è inutile e dovete bere il caffè di corsa per andare a versare due euro e ritirare la ricevuta.
Votare a sinistra oggi è un voto utile, anche se Berlusconi manda all’aria le primarie del PDL.
Votare a sinistra oggi è un voto utile, anche se nel Pantheon di sinistra ci sono papi e cardinali.
Votare a sinistra oggi è un voto utile, anche se Tabacci è il più marxista.
Votare a sinistra oggi è un voto utile, perché i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
Votare a sinistra oggi è un voto utile, perché per abbattere “il muro di Berlino” dell’austerity c’è bisogno di un nuovo governo.
Votare a sinistra oggi è un voto utile, perché bisogna capire cos’è l’Italiano medio senza Berlusconi.
Votare a sinistra oggi è un voto utile, perché il clima di queste primarie è degno della Politica, termine per una volta usato in un’accezione positiva:  partecipazione democratica.  
 Votare a sinistra oggi è un voto utile, perché nel 2012 un ragazzo che porta i pantaloni rosa si suicida.
Votare a sinistra oggi è un voto utile, perché chi restaura le tele di Raffaello e Leonardo, se è fortunato guadagna 5 euro all’ora.
Votare a sinistra oggi è un voto utile, perché se ce l’ha fatta Hollande e se ce l’ha fatta Obama …
Votare a sinistra oggi è un voto utile, perché non tutti quelli che nascono in Italia, sono italiani.
Votare a sinistra oggi è un voto utile, perché  l’Italia ha bisogno di sinistra.
Perché mettersi in fila e condividere concretamente un cambiamento, è una sfida che, con tutti i suoi limiti, merita di essere condivisa fino il fondo.  Oggi c’è in ballo molto di più del nuovo leader  del centro sinistra, c’è in ballo la speranza di quei due milioni di elettori che hanno scelto di provare a costruire un’Italia migliore.

Lucia de Marco

venerdì 2 novembre 2012

Tra poche ore sarò schifato- La morte di Pasolini



Sarò schifato perché anni fa è morto un uomo, massacrato a calci e bastonate, lasciato a marcire alla periferia di Ostia.
Sarò schifato perché storie di sesso omosessuale, prostituzione, tapparono i nasi - ma soprattutto gli occhi e le menti - troppo raffinati per scavare un po’ in una tale sentina morale, troppo raffinate per vedere dietro il bastone che ha colpito un braccio molto più lungo. Era una storia sbagliata, per dirla alla De Andrè.

Ma per tutto ciò, per la morte di Pasolini, potrei essere semplicemente triste, dispiaciuto, arrabbiato.

E’ infatti solo tra qualche ora che sarò pienamente schifato.

Quando qualcuno vorrà cercare di inquadrare la pulsione critica e analitica di Pasolini nel quadretto preconfezionato di un intellettuale di sinistra e maledetto, dedito ai vizi del sesso, del vino. (o della vita?)
Sin troppo facile.
Parlando di Pasolini entriamo subito in labirintici percorsi.
Troppo spesso la sua immagine è stata forma di ‘maledettismo’, noi abbiamo invece la possibilità di restituire la grandezza di questo personaggio.
Un poeta che fa della poesia uno spazio prezioso, ineffabile. La poesia diventa dialetto, corporeità estrema, sessualità. [Nichi Vendola]

Quando qualcuno ripeterà fazioso le puntigliose parole di “Vi odio cari studenti”, riducendo un pensiero così profondo ad un additare “buoni” e “cattivi”.
E nessuno ricorderà il commento dello stesso Pasolini: “nessuno dei consumatori si è accorto che questa non era che una boutade, una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l'attenzione del lettore, e dirigerla su ciò che veniva dopo. [...] il potere oltre che additare all'odio razziale i poveri - gli spossessati del mondo - ha la possibilità di fare anche di questi poveri degli strumenti, creando verso di loro un'altra specie di odio razziale; le caserme dei poliziotti vi erano dunque viste come ghetti particolari, in cui la qualità di vita è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università.

Quando qualcuno parlerà sciattamente del “poeta delle borgate”, dando l’immagine di un Pasolini al limite del folkloristico, che gioca all’intellettuale filantropo.
Ci si dimentica invece che solo la ricerca profonda e cieca della Cultura, del Sapere, della comprensione di qualcosa di più, ha portato Pasolini a indirizzare la sua ricerca verso l’Uomo e vivere tra uomini
   che non mi sono fraterni, eppure sono
    
    fratelli proprio nell'avere
    passioni di uomini
    che allegri, inconsci, interi
    
    vivono di esperienze
    ignote a me. Stupenda e misera
    città che mi hai fatto fare
    
    esperienza di quella vita
    ignota: fino a farmi scoprire
    ciò che, in ognun, era il mondo.

[PP. Pasolini, Il pianto della scavatrice]


Il problema è che non basta essere d’accordo con Pasolini.
Perché veramente nella sua poesia il sentire umano e la parola convivono, “non c’è la profezia laica ma c’è solo l’onestà straordinaria del connubio tra vita e scrittura”.
E quindi anche di me sono un po’ schifato: ora che metterò da parte queste parole e tornerò a vivere con quegli stessi paraocchi che mi porto dietro sin dalla nascita.

Federico Labriola 


giovedì 1 novembre 2012

Guida ai politologi virtuali


Sono ovunque, ovunque.
Qualsiasi sito, qualsiasi profilo, qualsiasi blog, ci sono loro: i politologi virtuali. Non mi riferisco a chi prova ad abbozzare “in privato” delle riflessioni per confrontarsi con i propri amici: è un ottimo modo di esporsi e imparare a dialogare. Non mi riferisco a quelle grandi pagine dedite all’informazione “libera” o “anticasta”: in fondo chi si occupa di quelle pagine lo fa a tempo pieno, ha l’occhio fisso sul counter delle visite e almeno si prende spesso la briga di fare interventi strutturati. Io parlo di un’altra specie: senza precise idee politiche, veloci nel commentare, pronti ad insultare o a diffondere “il verbo”.
Il politologo d’assalto: spunta come un fungo, commentando con sdegno da Alessandria le elezioni comunali di Molfetta, incriminando Renzi di non aver fronteggiato il mostro di Firenze, sostenendo che se guadagni più di 800 euro al mese non hai il diritto di parlare e....sì, chiaro: sei un massone!

Il politologo propositivo: inizia la maggior parte dei suoi interventi con: “C’è solo una cosa da fare...”. 
A questo punto, puoi anche aspettarti che proponga qualcosa di semplice, al limite ingenuo, ma realizzabile. E invece i suoi consigli sono: tutti a casa; tutti ai lavori forzati; bruciamo le banche boicottiamo le pompe di benzina; tutti i politici con 500 euro al mese; non paghiamo i debiti sovrani.Insomma, con certi statisti su Facebook, ti chiedi sempre come mai perdano ancora tempo dietro il computer e non conquistino il mondo.


Il politologo ripetitivo: ha fatto del detto “repetita iuvant” la sua filosofia di vita. Dal sito delle monache di clausura a “Quelli che il calcio”, continua a spargere link sull’uso medico della cannabis, sui complotti pluto-massonici, sul perché in Italia la benzina costa di più, su come ci stanno fregando tutti.


Perché questa carrellata?
Perché queste persone pensano di essere portatrici di una mente e di uno spirito critico, di essere i soli non assoggettati alle logiche dei potenti e del sistema.
E proprio ora che dire cose “anticasta” sembra un must irrinunciabile per tutti (politici compresi!), sento la pulsione di fare esattamente il contrario. Sento il bisogno di dire che forse dovremmo capire che è più utile spendere un pomeriggio al mese nella sede di una qualsivoglia associazione politica, piuttosto che tenere a tempo pieno comizi su internet. Sento il bisogno di dire che ci sono anche ragioni fondate per cui i politici debbano avere uno stipendio, anche di un certo ammontare.
Sento il bisogno di dire che se non ci prendiamo la briga di uscire una domenica mattina, un paio di volte al lustro, per votare, tutti i nostri appelli del tipo “non ci meritiamo questa classe politica”, meriterebbero come risposta una sonora pernacchia.


Federico Labriola

sabato 27 ottobre 2012

Cervelli fuori sede, futuro cercasi.




Sono cervelli emigranti a bordo di un aereo . Destinazione: lì dove un occupazione c’è. Un’ Italia limite per menti dal multiforme ingegno? A quanto pare il ‘’Bel Paese’’ sembra star stretto ad un numero sempre maggiore di giovani studenti. E’ il popolo invasore  per eccellenza quello dei cervelli zelanti in fuga, alla spasmodica ma doverosa ricerca di un lavoro che non c’è , di un futuro da ritenersi  fortunato se ricevi la pensione in età (oggi considerata)  prematura.
Si parla di una disoccupazione giovanile pari alla  cifra record del 34,6 %, di una meritocrazia quasi inesistente e di una invisibile gerontocrazia.
Pare siano loro i ‘’genitori’’ di quello che chiamiamo ‘’brain drain’’, fenomeno insistente, ormai all’ordine del giorno. Dati statistici affermano che il numero delle matricole universitarie è sceso del 15% in quelli che sono stati i nostri ultimi otto anni,con un tasso di abbandono del 23% nel primo anno di studi e di un 30% nel secondo anno.
E’ l’esodo delle menti dai grandi talenti, è la perdita costante di un patrimonio giovanile in fuga, lo spaccato di una società anziana, dove i giovani sono soltanto giovani. Una generazione sottovaluta perché ritenuta ingenua, o probabile egocentrismo delle figure al potere nel cedere un futuro meritevole ad una generazione altrettanto tale? Un cervello oratore in fuga direbbe così :’’io sono un pittore e dipingo soltanto l’amore che vedo e alla società  non chiedo che la mia libertà ”(The Bachelors)
E il pittore che l’ dipingeva, in un Paese ideale, sognatore, ma fondamentalmente giovane, pare che oggi giorno sia suo malgrado destinato a dipingere una società di cervelli sempre meno“choosy”. 
Sarebbe questo lo spassionato e altrettanto sincero consiglio del Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Elsa Fornero. Caro Ministro, le pare averci fornito una soluzione astuta? Siamo cittadini di un sistema marcio  al quale ci tocca doverosamente appartenere, dove non è concesso compiacersi di un futuro colmo di passioni  . Quello della sensibile Fornero sembra essere un invito alla resa, al farsi bastare “quello che passa il convento’’. Lei , Ministro Fornero, se la farebbe bastare un’Italia cosi? La verità è che essere ''choosy'' oggi giorno è uno dei pochi lussi gratuiti ancora in circolo. Non sarà che volete tagliarci anche questo?!


Mariacristina Lattarulo

lunedì 22 ottobre 2012


I giovani italiani, orfani e rottamatori.


La parola in tempo di crisi conserva in sé un nocciolo di verità tramandata dalla tradizione, un significato puro e originario che se pur sotterrato da cumuli di cianfrusaglie ingombranti e polverose, può tornare a nuova luce e far chiarezza sul nostro presente, a tratti più oscuro del passato stesso.
“Giovane”, dal latino iuventus, colui che può giovare, ben si sposa col termine “ricambio”, dal tardo latino cambiare, rendere il cambio o il merito, trasformazione di uno stato di cose per via naturale, o indotta.
Un ricambio generazionale è dunque un cambiamento che può giovare? 
Oggi è difficile poter affermare con certezza che l’equazione “giovane”  uguale “migliore” sia esatta. Resta un’incognita vacante nel nostro paese che oscilla fra “i giovani d’oggi non sono quelli di una volta” gonfia di un moralismo ipocrita, e un giovanilismo spietato che addirittura si è tradotto in politica nel termine ben noto di  “rottamazione”. Perché il ricambio generazionale resta  “ l’utopia di un’ Italia immobile”? Perché la trasformazione di uno stato di cose non può esplicarsi per vie naturali, ma solo indotte,  solo con una sorta di “parricidio” forzato?
Vi sono numerose cause di tipo sociologico e antropologico che determinano questa incapacità di rinnovamento , caratteristica ormai strutturale del nostro paese.
L’allungamento della vita media ha in qualche modo procurato un “ritardo dei giovani”, o semplicemente si è spostata la soglia massima per la quale una persona possa essere definita “anziana “o “giovane”?  Poco importa la risposta, il dato oggettivo è che l’11% della forza lavoro del nostro paese, compresa in una fascia fra i 15 e i 34 anni , né lavora, né studia, ed è questa che oggi definiamo la categoria dei NEET (  Not in Education or in Employment Training), la così detta “generazione perduta”, la “generazione dei senza”, indicata dalla Commissione europea come uno dei principali “focolai del disagio sociale”.
Il dato interessante è che se l’allungamento della vita media possa definirsi a livello internazionale tanto che il nostro secolo è stato definito il “secolo dei vecchi”, ciò non implica che in tutti i paesi la soglia giovanile si sia spostata. In Italia gli “under 35” al potere sono lo 0,1 %, in Germania il 14%, e spostandoci in ambito extraeuropeo arriviamo alla Cina col 30%. In più il tasso di disoccupazione giovanile del nostro paese, nel secondo trimestre del 2012 ha toccato il 33% a fronte del 7, 9% della Germania, e dell’8,3% dell’Austria.
 Una sorta di condanna all’eterna giovinezza che costringe milioni di italiani a “consumare senza mai avere il diritto di produrre”, a vivere di lavori precari, alle spalle della famiglia, e senza prospettive di futuro, sino alla soglia dei 35 anni.
A questa frustrazione dovuta ad uno stato parassitario permanente e forzato si aggiunge lo spettacolo pietoso della classe dirigente italiana, immobile, improduttiva e corrotta allo stesso tempo.  La condanna alla passività diventa ancor più insopportabile se chi occupa il tuo posto di lavoro, non solo è più anziano, ma, arroccato sulla poltrona del potere, contribuisce in maniera decisiva alla decadenza politica e sociale oltre che economica del tuo paese, da più di trent’anni.
Se il buon senso vuole che “il migliore” vada avanti a prescindere dall’età anagrafica, l’esasperazione dei giovani italiani romperà gli argini come un fiume in piena trasformando il “ricambio” in “rottamazione”.  Il desiderio di riscatto e di dichiarare il definitivo fallimento dei “vecchi”, non permette un naturale succedersi delle generazioni, e dunque porta al corrente luogo comune che ciò che giovane è anche migliore. 
In “Mai devi domandarmi” Natalia Ginzburg scriveva: “è estinta o si sta estinguendo la stirpe dei padri. Da tempo orfani, noi generiamo degli orfani, essendo stati incapaci di diventare noi stessi dei padri. Non è forse l’incapacità di ogni generazione di padri a rispettare il diritto delle future generazioni a generare infinite schiere di figli orfani e rottamatori?

Lucia de Marco


Fonti:
-"La parola Ricambio", di Carlo Galli per Repubblica.
-"Il ricambio generazionale: l'utopia di un paese immobile", di Elisabetta Ambrosi, www.italianieuropei.it
- "Nè a scuola nè il ufficio, l'Italia dei giovani sfiduciati" di Geraldine Schwarz, per R2 di Repubblica. 

martedì 25 settembre 2012

Perché Camus non mette d’accordo nessuno




Nei momenti più oscuri del nostro nichilismo, ho cercato soltanto le ragioni per superare quel nichilismo. E non per virtù, né per rara elevatezza d’animo ma per istintiva fedeltà a una luce in cui sono nato e dove gli uomini hanno imparato da millenni a salutare la vita anche nella sofferenza
A.C.

Non c’è pace per Camus. Un articolo del 17 Settembre scorso apparso sul Corriere della Sera riferisce delle accese polemiche sulle celebrazioni del centenario della nascita dello scrittore algerino. Resta ora vacante il posto di organizzatore della mostra che gli sarà dedicata nel Novembre del 2013 ad Aix-en-Provence. Il compito, prima affidato da Cathrine Camus, figlia dello scrittore, a Benjamin Stora ed ora abbandonato anche dal filosofo Michel Onfray , non riesce a trovare il giusto interprete. Stora, storico colonialista, era stato licenziato per le pressioni della Destra di Aix-en-Provence, per le sue posizioni sul ruolo avuto da Camus nella lotta per l’indipendenza algerina. Strenuo difensore della convivenza tra arabi e pied-noirs, Camus osteggiò fortemente la politica repressiva dell’amministrazione coloniale francese nei confronti degli “indigeni”, senza però mai fomentare le pulsioni terroristiche del Fronte di Liberazione Nazionale algerino. Onfray, trovando per contro le diffidenze della Gauche e del ministro della cultura Aurélie Filippetti, ha deciso di rinunciare all’incarico. Parlando di “nave dei folli”, Onfray ha denunciato le macchinazioni e le ipocrisie di una vera e propria guerra civile nel mondo della cultura francese. Uno scenario tristissimo che certamente non rende onore all’onestà intellettuale di Camus. A tutto ciò fa eco il dibattito turbolento in Algeria sulla vicinanza dello scrittore alla causa dell’indipendenza. Totem del colonialismo francese o difensore del popolo arabo? La figura dell’autore de “La Peste” continua a dividere e a suscitare accanite opposizioni. 
Riferimento della sinistra comunista, e “annesso” da Comunione e Liberazione nel tradizionale meeting riminese del 2010: il paradosso rende bene l’idea della difficile collocazione di uno spirito libero e anarchico. C’è probabilmente una ragione profonda nell’impossibilità di ridurre il pensiero di Camus a scorciatoie dogmatiche e semplificazioni faziose. Il vestito messo a “L’Uomo in rivolta” è troppo stretto.
Come scrive in uno dei saggi de L’Estate “ogni mutilazione dell’uomo può essere soltanto provvisoria e non si serve in nulla l’uomo se non lo si serve tutto intero.” Alla dottrina Camus antepose sempre l’uomo, tutto intero, con le sue esaltazioni e le sue bassezze, i suoi amori e suoi crimini. Di fronte alle guerre e alla distruzione del suo secolo grondante di sangue, Camus non dimentica la bellezza delle spiagge sabbiose dell’Algeria, il sole accecante del Mediterraneo che illumina e abbaglia. “Al centro della mio opera” disse “c’è un sole invincibile”. Un’infanzia vissuta nella miseria non gli poté impedire di godere dello splendore del suo paese; uno splendore che portò sempre nel cuore per tutta la vita. E’ questo ciò che lo distingue fondamentalmente da tanto pessimismo diffuso tra gli intellettuali del suo tempo.
Il Novecento è stato il secolo della totalità: il nichilismo getta l’uomo a capofitto nell’inferno della guerra, e della rivolta per la conquista di una salvezza assoluta. Ad una giustizia parziale l’uomo preferisce una ingiustizia generalizzata. Ma nessun ideale giustifica l’omicidio; la speranza di una salvezza di là da venire non garantisce a nessuno il diritto di armare la propria mano.
Nel secolo della totalità egli rivendicò il valore della misura. La Nemesi, nell’antica Grecia non è la Dea della vendetta ma quella della misura, che punisce chi varca il limite. Il grido della rivolta, alla lunga, irrigidisce il cuore, e l’uomo che protesta finisce per dimenticare le ragioni del suo stesso dolore.  La ricerca della giustizia invece impone invece di tenere lo sguardo sul confine indistinto che separa la luce dall’ombra, la bellezza dalla morte. Denunciare l’ingiustizia, senza voltare le spalle alla luce: questa la via spirituale di Camus per una salvezza terrena. Ed è forse proprio la fedeltà alla misura che spiega le apparenti ambiguità sulla questione algerina: Camus non smise mai di credere nella possibilità di una serena convivenza tra il popolo algerino e i francesi. Tuttavia, solo la parità dei diritti, una Costituzione e un Parlamento indipendente avrebbero potuto portare ad una serena risoluzione del conflitto. L’ostracismo dei pied-noirs avrebbe reso impraticabile questa via, spingendo gli algerini alla rivendicazione armata, condannata da Camus senza mezzi termini. 
Annettere Camus alla propria causa resterà un’impresa ardua, ma non  ce ne dogliamo. Non è forse questa la più autentica certificazione della forza di un uomo che, più che a tutto il resto, aspirava alla pace e alla libertà?

Alberto Donadeo

Fonti:
-Questa lotta vi riguarda. Corrispondenze per Combat 1944-1947” Albert Camus, I Edizione Bompiani2010
-“L’Estate e altri saggi solari” Albert Camus  II Edizione Tascabili Bompiani 2010
-“Una nuova guerra d'Algeria per il centenario di Camus” Stefano Montefiori, Corriere della Sera 18 Settembre 2012   
-“Albert Camus, the outsider, is still dividing opinion in Algeria 50 years after his death” Peter Beaumont, The Observer 28 Febbraio 2010, www.guardian.co.uk






sabato 18 agosto 2012

Il circolo vizioso della crisi economica e della politica



La crisi economica e finanziaria che dai primi mesi del 2008 si è diffusa in Europa dagli Stati Uniti indica uno stato di debolezza e di stallo dei mercati europei, che si oppone alla (apparente) stabilità e tranquillità degli anni precedenti. Oltre ad interessare il settore economico, la crisi rivela le sue propaggini in quello sociale e politico. Mettendo da parte (in questo articolo) l’elevatissimo numero di persone appartenenti alle fasce più deboli della società che sono state direttamente colpite dalle politiche fiscali e monetarie dei governi volte a risanare le casse dei singoli stati, concentriamoci su un aspetto della crisi in ambito politico europeo.
La crisi economica ha messo in ginocchio numerosi governi dei paesi dell’Unione Europea, è stata la causa primaria della caduta di molti ed è all’origine della linea dura adottata da altri – vedi la Germania – nei confronti dei PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna, vale a dire quei paesi che presentano instabilità e debolezze a livello dei conti pubblici). Gli stati più forti, invece, intenzionati a non farsi corrodere interiormente dall’ondata di crisi come i propri vicini, sono sostenitori di politiche interne chiamate a rispondere sempre di più alle esigenze elettorali nazionali, al fine di mantenere il potere. Si è entrati in un circolo vizioso della crisi economica e della politica, le cui  conseguenze sullo stallo economico rischiano di essere irrimediabili e la situazione risulta ulteriormente aggravata.
Grecia nel 2009, Portogallo, Spagna e Italia nel 2011, Olanda nel 2012, sono i paesi che, dopo aver sottoposto le misure di austerity ai propri parlamenti o non essendo più in grado di reggere il confronto a livello europeo e internazionale, hanno attraversato una fase di instabilità politica sfociata nelle dimissioni dei rispettivi Primi Ministri. In quattro casi su cinque le sorti del paese sono state poste nelle elezioni anticipate fatta eccezione dell’Italia (che ha schierato in campo un governo di tecnici ). Grecia, Portogallo e Spagna hanno assistito al passaggio di leadership dal partito di maggioranza all’opposizione: in Grecia si è passati dal partito di centro destra di Nuova Democrazia ai socialisti del Pasok; in Spagna e in Portogallo il passaggio è stato opposto, con la vittoria dei conservatori del Partito Popolare di Rajoy in Spagna e del centro destra guidato da Coelho in Portogallo. Rimane tutt’ora un’incognita la situazione in Olanda che, a poco meno di un mese dalle elezioni (12 settembre 2012), vede in testa il partito Socialista di opposizione, davanti alla destra uscente. In questi casi, dunque, la crisi economica e le difficoltà nel fronteggiarla, hanno svolto il ruolo di boia, limando dall’interno i sistemi politici europei, causandone la chiusura anticipata dei battenti. 
In simili circostanze è avvenuto il passaggio del testimone in Finlandia e Francia. All’Eliseo, il candidato del partito Socialista, François Hollande, ha riportato una risicata vittoria sull’ex presidente Nicolas Sarkozy, interrompendo la “tradizione” che da oltre trent’anni vedeva la riconferma del candidato uscente per il secondo mandato, ma soprattutto riportando la sinistra al governo, cosa che non accadeva dai tempi di Mitterand (1981-1995). Le elezioni nel paese scandinavo hanno riservato altrettante sorprese: il partito conservatore ha riportato una storica vittoria in Finlandia, guidata dai Social-Democratici (tra l’altro neanche arrivati al secondo turno) dal 1982.
Assistiamo quindi ad una paralisi dei “sistemi politici” europei, in quanto l’instabilità rallenta le procedure di governo, tra cui lo stesso meccanismo di difesa di ogni singolo stato contro la crisi economica. A questo si va ad aggiungere la paralisi dell’azione combinata europea, dovuta al prevalere delle politiche nazionali su quelle di interesse comune europeo. Il progetto di una Federazione degli Stati Europei, già formulato dai padri fondatori dell’UE dopo la Seconda Guerra Mondiale e che ultimamente è tornato a farsi sentire tra i valori dei pro-europeisti, è minacciato costantemente dalla linea dura adottata da alcuni paesi, notoriamente la Germania, a cui recentemente si vanno ad aggiungere Finlandia e Olanda. I leader di questi paesi, gli unici del sistema monetario Euro a mantenere la tripla A nelle agenzie mondiali di rating, sono costantemente condizionati nelle loro scelte a livello europeo dagli interessi esclusivi delle campagne elettorali nazionali. Ne sono un esempio fresco i veti di Finlandia e Olanda sulla proposta riguardo lo Scudo Anti-Spread, accordato nell’ultimo vertice Europeo del 28-29 giugno 2012. I conservatori in Finlandia e Olanda (in attesa delle elezioni, la destra in Olanda mantiene provvisoriamente il potere) vogliono mostrare la linea dura che li caratterizza e che, nel caso di Finlandia, li ha portati alla testa del paese. Meno concessioni sul fronte comune europeo, infatti, apparentemente significa mantenere la propria stabilità economica e finanziaria.
Caso simile si riscontra in Germania, dove Angela Merkel è già da tempo in piena campagna elettorale. Sebbene le elezioni presidenziali siano fissate per il 2013, nel maggio scorso la cancelliera tedesca ha riscontrato un sonoro calo dei consensi nelle elezioni dei parlamenti federali delle regioni Renania Settentrionale-Vestfalia e Schleswig-Holstein. Inutile dire che questi avvenimenti della politica interna stanno determinando la linea dura del leader tedesco e le sue fredde prese di posizione (“gli Eurobond non si faranno finché vivrò”), paralizzando pesantemente gli interventi dell’Area Economica Europea volti ad arginare la crisi.
Dunque, finché gli interessi nazionali dei paesi dell’Unione Europea prevarranno sulle decisioni comuni, finché i singoli governi non rinunceranno in scala sempre maggiore alla sovranità nazionale in favore di una solida federazione degli Stati Uniti d’Europa, la crisi non potrà mai essere superata definitivamente. Per questo motivo, solamente dopo le elezioni in Germania e in Italia - rispettivamente prima e terza economia europea - vale a dire solamente a partire dalla fine del 2013, ci si potrà aspettare una valida risposta sul piano della coesione. Una prospettiva, questa, che non tranquillizza affatto i mercati europei, i quali faticano a venire fuori da una crisi che necessitava da tempo una risposta coesa e decisa. Basti pensare all’esempio degli Stati Uniti, da cui tutto è cominciato, che nonostante i dati e le percentuali che tuttora lasciano a desiderare, sono riusciti a ribaltare una situazione a loro sfavorevole soprattutto grazie al pronto intervento della Federal Reserve, la banca centrale federale.
Tra l’altalena degli spread e dei rendimenti, la paura del contagio e della deflazione, l’uscita della Grecia dall’Euro, gli aiuti alle Banche Spagnole, la speranza, si sa, è sempre l’ultima a morire. Per tanto tutti insieme, pro-europeisti, chiediamo che la politica europea prevalga sugli interessi nazionali e che i capi di governo tornino a meritarsi il titolo di leader “europei” agendo in fretta e lavorando all’unisono per raggiungere risposte concrete alla crisi economica prima del 2014.

Andrea Longo

mercoledì 25 luglio 2012

La Strage di Denver, quando il cattivo non è il Joker


Se vivi negli Stati Uniti e una sera di Luglio decidi di andare al cinema a vedere il film di Batman, è necessario che  ti preoccupi di avere 21 anni per ordinare una birra al bar, oppure di nascondere il tuo panino al formaggio francese  perché è fatto col latte crudo e dunque è illegale e pericoloso, ma non devi assolutamente preoccuparti se quella sera ti va di infilare nella tua borsa un mitra, o una qualsiasi arma da fuoco.  Ad Aurora, Denver, Colorado, un ragazzo ha tirato fuori      quel mitra e ha sparato, ha ucciso 12 persone e ferite 50.  E’ uno studente universitario, ha  24 anni, vita normale, faccia simpatica e capelli rossi, il suo modello è il Joker , il cattivo del film. Il suo sguardo perso nel vuoto durante le sedute giudiziarie non può che far pensare che il vero cattivo è dietro il gesto della sua follia. La colpa è di chi non ha saputo rendergli difficile procurarsi un arsenale sufficiente per una guerriglia urbana, delle lobby che hanno tutelato quell’acquisto, di quella costituzione che garantisce il diritto a comprare un’ arma ma non il diritto alla salute, della folla di moralisti che accusa il film di Nolan che “incita alla violenza”, di chi ancora vuole definire gli Stati Uniti il baluardo della democrazia  e della civiltà perché è dotato di un Mc Donald ogni 100 metri.  Quel ragazzo dai capelli rossi, probabilmente sarà condannato alla pena di morte, e nella sua follia avrà evidenziato tutte le contraddizioni e le brutalità del sistema americano, che risponde all’omicidio con la morte, che condanna il killer senza mettere in discussione come e perché abbia potuto  possedere quelle armi, e interrogandosi sul valore educativo dei film di Batman non si accorge del moltiplicarsi delle code al Rocky Mountain Guns and Ammo, già pieno di impazienti clienti pronti all’emulazione poche ore dopo la strage. Il Colorado Bureau of Invastigation ha registrato un aumento di richieste d’acquisto di pistole e fucili del 39% superiore rispetto al precedente week end di luglio. “La gente si è messa letteralmente in fila dinanzi ai negozi di armi, nella sola giornata di domenica il Colorado ha concesso 2884 permessi”. James Holmes, l’autore della strage è riuscito ad acquistare nel giro di otto settimane su internet 6.300 munizioni: 3.000 per il fucile semiautomatico ar-15, altri 3.000 Per le due pistole glock e 300 caricatori per il fucile a pompa. Ha anche comprato  una rivista specializzata dalla quale ha imparato come sparare 60 colpi al minuto. Il “dovrei fare come in Colorado” si diffonde a macchia d’olio e semina paura. Ma neanche il premio nobel per la pace, Barack Obama, è capace di una svolta radicale, lascia solo una labile speranza: "Spero che nei prossimi giorni, settimane, mesi, possiamo riflettere su come fare qualcosa contro la violenza insensata che flagella questo paese", una speranza priva di qualsiasi concretezza, che non trova “aggiornamenti sulla sua agenda” e che dunque non preoccupa i difensori del tabù delle armi negli Stati Uniti. Si rimanda il problema di strage in strage, mentre aumenta vertiginosamente il numero dei morti. Ma tutto va per il meglio, la colpa è del film di Batman. 


Lucia de Marco

lunedì 28 maggio 2012

La strage di Brindisi: atto estremo di un Paese suicida


E’ passata una settimana dalla strage di Brindisi e  fiumi di inchiostro sono stati spesi per commentare la morte di Melissa Bassi. E’ facile scadere nella retorica quando si cercano le parole per descrivere la morte di un innocente.  E’ una di quelle situazioni in cui siamo a disagio. La realtà tocca le corde più profonde della sensibilità umana, e risveglia quei millenari perché sul senso e sulla giustizia dell’esistenza.  Ed ecco che ci ritroviamo tutti attaccati alla tv, ai giornali alla ricerca di un perché, ci riversiamo in piazza obbedendo a quel moto di rivolta che rivendica un senso alla nostra vita. Senza  appellarci alla retorica o a infinite congetture per rispondere alle nostre domande,  la riflessione più doverosa è una soltanto: in Italia è caduto anche l’ultimo tabù, quello della scuola. Il nostro paese ha conosciuto Piazza Fontana, bombe nelle stazioni e nelle questure, ha conosciuto la strage di Capaci e Piazza della Loggia ma mai la violenza e lo stragismo avevano colpito quanto di più sacro e più innocente possa esistere, ragazzi che vanno a scuola. E’ insopportabile il senso d’angoscia e di impotenza difronte a quei quaderni che invece di racchiudere cultura, bruciavano,  ed erano i resti di violenza e terrore.  La morte di Melissa è l’ennesimo colpo sul nostro  paese suicida, l’Italia, dove il lavoro è morte, e la scuola è morte.  Si sgretolano sotto i nostri occhi i baluardi dello stato sociale, assistiamo ad un’involuzione civile e culturale,  e ora più che mai è necessario un atto di ricostituzione della nostra democrazia mutilata dalla crisi economica e dal degrado morale della politica. L’attenzione mediatica sui fatti di Brindisi è calata vertiginosamente quando le ipotesi di una strage di mafia sono state confutate, come se “il gesto di un folle” fosse una rassicurazione ai nostri peggiori incubi di ritorno alla strategia della tensione.  Viviamo in un’incognita pressoché totale sulla futura classe dirigente del nostro paese, la crisi economica piaga la società civile, l’astensione alle urne dilaga e l’antipolitica crea quei buchi neri e quegli spazi vuoti che se non colmati da un riscatto delle forze democratiche possono essere riempiti da una nuova stagione di tensione sociale.  Dobbiamo vivere  la morte di Melissa non come un sacrificio sull’altare della follia, ma come un’ingiustizia da riscattare e redimere con legalità.

Lucia de Marco 

mercoledì 25 aprile 2012

La vittoria della pace in Birmania: San Suu Kyi entra in parlamento


Quindici  anni di arresti domiciliari non hanno appassito  gli splendidi fiori che ornano i suoi capelli né la sua tenacia politica. L’esile e dolce figura della Lady birmana San Suu Kyi si concilia armoniosamente col suo temperamento appassionato, l’ideale di lotta politica e resistenza non violenta.  Siamo tornati a parlare di lei con entusiasta soddisfazione per la schiacciante vittoria elettorale dello scorso 2 Aprile. San Suu Kyi rinnova  il suo premio Nobel per la pace ponendosi nuovamente e senza riserve a capo del movimento democratico birmano. L’affermazione di un sistema pienamente democratico nel Myanmar è una storia che trova il punto di snodo proprio nella vittoria elettorale del 1990 di San Suu Kyi, leader della Lega Nazionale per la Democrazia,  alla quale di diritto spettava il ruolo di Primo Ministro.  Il voto popolare, rovesciato dalla dittatura militare che ancora oggi governa  il paese, fu annullato e San Suu Kyi condannata agli arresti domiciliari, rinnovati di seguito dal 1991 al 10 Novembre 2010, giorno della sua liberazione.  A tenderle una mano è stato il presidente Thein Sein  che se pur nell’incondizionato potere della dittatura militare ha avviato una stagione di riforme democratiche, scarcerato centinaia di detenuti politici e avviato un dialogo per una “riconciliazione nazionale” con la leader dell’opposizione, messa fuori legge per quasi un ventennio.  Fra questi tentativi di apertura democratica si inseriscono le elezioni dello scorso 2 Aprile, che assumono un significato  poco più che simbolico: si rinnovano  solo 45 seggi di ben 664 del parlamento birmano, che rimane sostanzialmente in mano ai militari. Tuttavia la portata di questa vittoria dell’opposizione va ben oltre il semplice rinnovo in parlamento di pochi deputati:  San Suu Kyi , consapevole dello scarso potere del suo partito, apre comunque uno spiraglio per dar voce alle “aspirazioni del popolo”, e per avviare un percorso che la porti dritta alle elezioni presidenziali del 2015. A pochi giorni dalle elezioni , e con pochissimi poteri effettivi già comincia a far sentire la sua presenza scomoda  boicottando la prima seduta in parlamento che prevedeva il giuramento di fedeltà alla Costituzione militare.  Ma in questo momento cruciale di battaglia politica è assolutamente necessario non abbandonarsi a speranze poco realistiche. Ci troviamo davvero difronte alla transizione verso un regime democratico col consenso dei militari, o l’apertura del governo di Thein Sein nasconde un fine economico?
Come è ben noto il Myanmar è soggetto a sanzioni economiche da parte dell’UE che interferiscono modestamente sul bilancio economico del paese, tuttavia  impediscono uno sviluppo sulla scia del modello cinese. I giganteschi giacimenti di gas del paese non incidono sull’economia nazionale, nonostante l’enorme potenzialità, a causa della mancata collaborazione con l’occidente. Forse che l’apertura democratica non sia un  modo per uscire dallo stato d’isolamento imposto dalle organizzazioni internazionali? Effettivamente la risposta dell’unione europea alla liberazione di San Suu Kyi è stata di un alleggerimento delle sanzioni economiche come incoraggiamento per nuove riforme democratiche. La questione è controversa, tuttavia la capacità politica della Lady che ha incantato il mondo lascia ben sperare alla nascita di un regime democratico raggiunto attraverso l’ideale di  resistenza passiva, sulla scia di Gandhi e Nelson Mandela, le grandi icone della lotta politica attraverso la non violenza. 

 Lucia de Marco


sabato 14 aprile 2012

L’ipocrisia dei partiti sui rimborsi elettorali

Tanto rumore per (quasi) nulla. Le promesse dei partiti sulla revisione del sistema dei rimborsi elettorali restano, almeno per ora, soltanto tali. Così ha deciso la commissione dei “tecnici” di Pd, Terzo Polo e Pdl al termine di un lunghissimo incontro tenutosi nella giornata di Giovedì 13 Aprile. Ogni decisione relativa ad eventuali tagli ai rimborsi elettorali è stata rinviata a Maggio e non sarà dunque contemplata nel decreto semplificazioni fiscali. Non è bastato nemmeno il richiamo del Consiglio d’Europa a sollecitare la classe politica: tra il 1994 e il 2008 2,25 miliardi di euro hanno ingrassato le casse dei partiti contro 570 milioni di spese sostenute. Questo fiume di denaro fa parte del “rimborso delle spese per consultazioni elettorali e referendarie” introdotto dopo che un referendum nel 1993 aveva abrogato la legge sul finanziamento pubblico ai partiti. Anche se di “rimborso” tutti questi soldi hanno ben poco: secondo le stime della Corte dei Conti l’avanzo dei partiti, sulle spese sostenute per le elezioni politiche del 2008, corrisponderebbe ad addirittura 1,9 miliardi. Sono in molti ormai a sostenere l’iniquità dell’intero sistema dei finanziamenti pubblici ai partiti: un sistema che favorirebbe una gestione poco trasparente dei fondi, una deriva lobbistica e consociativa da parte della classe dirigente e la scarsa partecipazione dei cittadini alla politica.
C’è senza dubbio del marcio nel sistema dei “rimborsi”; ma mettere in discussione il principio per cui chiunque s’impegni nell’attività politica possa beneficiare dell’aiuto dell’erario rappresenta ugualmente un pericolo nel quale non possiamo incorrere. Fare tabula rasa del sistema dei finanziamenti pubblici significa rischiare che i partiti si compromettano con le logiche dell’interesse privato. Significa penalizzare le nuove formazioni politiche o i candidati privi di platee “clientelistiche”. Ma i partiti hanno ovviamente approfittato di tutto questo trasformando un principio teoricamente giusto in una contraddizione in termini.
Come ha scritto Giuliano Balestreri su LaRepubblica i soli rimborsi ai partiti basterebbero per la copertura della riforma del lavoro o nuovi ammortizzatori sociali. Ci chiediamo come facciano ABC (al secolo Alfano, Bersani e Casini) a non rabbrividire nel raffrontare questi dati alle stime sul numero degli “esodati”, rimasti senza lavoro e pensione.
La risposta che i partiti hanno dato ha soddisfatto solo pochi: da quest’anno una commissione costituita da Presidenti di Corte dei Conti, Consiglio di Stato e Corte di Cassazione esaminerà i bilanci dei partiti del 2011. Ma eventuali irregolarità verranno sottoposte dalla commissione ai presidenti di Camera e Senato, incaricati di applicare le sanzione. Come a dire che se la suonano e se la cantano da soli. Inoltre rischia di saltare anche l’impegno dei partiti di rinunciare all’ultima tranche di pagamenti prevista per quest’anno.
Più coraggio ha mostrato Antonio Di Pietro che prima ha lanciato un referendum per l’abrogazione della legge attuale, poi ha promesso di devolvere i rimborsi garantiti all’Italia dei Valori al Ministero del Lavoro.
L’impressione di sfiducia resta comunque molto forte: dopo gli scandali Lusi e Belsito, accusati di fare uso privato del denaro delle casse di partito, i politici che sostengono la maggioranza avrebbero dovuto calcare la mano e cercare un accordo più coraggioso.
Merce rara, ai giorni nostri, il coraggio sugli scranni del Parlamento.

Alberto Donadeo