mercoledì 25 aprile 2012

La vittoria della pace in Birmania: San Suu Kyi entra in parlamento


Quindici  anni di arresti domiciliari non hanno appassito  gli splendidi fiori che ornano i suoi capelli né la sua tenacia politica. L’esile e dolce figura della Lady birmana San Suu Kyi si concilia armoniosamente col suo temperamento appassionato, l’ideale di lotta politica e resistenza non violenta.  Siamo tornati a parlare di lei con entusiasta soddisfazione per la schiacciante vittoria elettorale dello scorso 2 Aprile. San Suu Kyi rinnova  il suo premio Nobel per la pace ponendosi nuovamente e senza riserve a capo del movimento democratico birmano. L’affermazione di un sistema pienamente democratico nel Myanmar è una storia che trova il punto di snodo proprio nella vittoria elettorale del 1990 di San Suu Kyi, leader della Lega Nazionale per la Democrazia,  alla quale di diritto spettava il ruolo di Primo Ministro.  Il voto popolare, rovesciato dalla dittatura militare che ancora oggi governa  il paese, fu annullato e San Suu Kyi condannata agli arresti domiciliari, rinnovati di seguito dal 1991 al 10 Novembre 2010, giorno della sua liberazione.  A tenderle una mano è stato il presidente Thein Sein  che se pur nell’incondizionato potere della dittatura militare ha avviato una stagione di riforme democratiche, scarcerato centinaia di detenuti politici e avviato un dialogo per una “riconciliazione nazionale” con la leader dell’opposizione, messa fuori legge per quasi un ventennio.  Fra questi tentativi di apertura democratica si inseriscono le elezioni dello scorso 2 Aprile, che assumono un significato  poco più che simbolico: si rinnovano  solo 45 seggi di ben 664 del parlamento birmano, che rimane sostanzialmente in mano ai militari. Tuttavia la portata di questa vittoria dell’opposizione va ben oltre il semplice rinnovo in parlamento di pochi deputati:  San Suu Kyi , consapevole dello scarso potere del suo partito, apre comunque uno spiraglio per dar voce alle “aspirazioni del popolo”, e per avviare un percorso che la porti dritta alle elezioni presidenziali del 2015. A pochi giorni dalle elezioni , e con pochissimi poteri effettivi già comincia a far sentire la sua presenza scomoda  boicottando la prima seduta in parlamento che prevedeva il giuramento di fedeltà alla Costituzione militare.  Ma in questo momento cruciale di battaglia politica è assolutamente necessario non abbandonarsi a speranze poco realistiche. Ci troviamo davvero difronte alla transizione verso un regime democratico col consenso dei militari, o l’apertura del governo di Thein Sein nasconde un fine economico?
Come è ben noto il Myanmar è soggetto a sanzioni economiche da parte dell’UE che interferiscono modestamente sul bilancio economico del paese, tuttavia  impediscono uno sviluppo sulla scia del modello cinese. I giganteschi giacimenti di gas del paese non incidono sull’economia nazionale, nonostante l’enorme potenzialità, a causa della mancata collaborazione con l’occidente. Forse che l’apertura democratica non sia un  modo per uscire dallo stato d’isolamento imposto dalle organizzazioni internazionali? Effettivamente la risposta dell’unione europea alla liberazione di San Suu Kyi è stata di un alleggerimento delle sanzioni economiche come incoraggiamento per nuove riforme democratiche. La questione è controversa, tuttavia la capacità politica della Lady che ha incantato il mondo lascia ben sperare alla nascita di un regime democratico raggiunto attraverso l’ideale di  resistenza passiva, sulla scia di Gandhi e Nelson Mandela, le grandi icone della lotta politica attraverso la non violenza. 

 Lucia de Marco


sabato 14 aprile 2012

L’ipocrisia dei partiti sui rimborsi elettorali

Tanto rumore per (quasi) nulla. Le promesse dei partiti sulla revisione del sistema dei rimborsi elettorali restano, almeno per ora, soltanto tali. Così ha deciso la commissione dei “tecnici” di Pd, Terzo Polo e Pdl al termine di un lunghissimo incontro tenutosi nella giornata di Giovedì 13 Aprile. Ogni decisione relativa ad eventuali tagli ai rimborsi elettorali è stata rinviata a Maggio e non sarà dunque contemplata nel decreto semplificazioni fiscali. Non è bastato nemmeno il richiamo del Consiglio d’Europa a sollecitare la classe politica: tra il 1994 e il 2008 2,25 miliardi di euro hanno ingrassato le casse dei partiti contro 570 milioni di spese sostenute. Questo fiume di denaro fa parte del “rimborso delle spese per consultazioni elettorali e referendarie” introdotto dopo che un referendum nel 1993 aveva abrogato la legge sul finanziamento pubblico ai partiti. Anche se di “rimborso” tutti questi soldi hanno ben poco: secondo le stime della Corte dei Conti l’avanzo dei partiti, sulle spese sostenute per le elezioni politiche del 2008, corrisponderebbe ad addirittura 1,9 miliardi. Sono in molti ormai a sostenere l’iniquità dell’intero sistema dei finanziamenti pubblici ai partiti: un sistema che favorirebbe una gestione poco trasparente dei fondi, una deriva lobbistica e consociativa da parte della classe dirigente e la scarsa partecipazione dei cittadini alla politica.
C’è senza dubbio del marcio nel sistema dei “rimborsi”; ma mettere in discussione il principio per cui chiunque s’impegni nell’attività politica possa beneficiare dell’aiuto dell’erario rappresenta ugualmente un pericolo nel quale non possiamo incorrere. Fare tabula rasa del sistema dei finanziamenti pubblici significa rischiare che i partiti si compromettano con le logiche dell’interesse privato. Significa penalizzare le nuove formazioni politiche o i candidati privi di platee “clientelistiche”. Ma i partiti hanno ovviamente approfittato di tutto questo trasformando un principio teoricamente giusto in una contraddizione in termini.
Come ha scritto Giuliano Balestreri su LaRepubblica i soli rimborsi ai partiti basterebbero per la copertura della riforma del lavoro o nuovi ammortizzatori sociali. Ci chiediamo come facciano ABC (al secolo Alfano, Bersani e Casini) a non rabbrividire nel raffrontare questi dati alle stime sul numero degli “esodati”, rimasti senza lavoro e pensione.
La risposta che i partiti hanno dato ha soddisfatto solo pochi: da quest’anno una commissione costituita da Presidenti di Corte dei Conti, Consiglio di Stato e Corte di Cassazione esaminerà i bilanci dei partiti del 2011. Ma eventuali irregolarità verranno sottoposte dalla commissione ai presidenti di Camera e Senato, incaricati di applicare le sanzione. Come a dire che se la suonano e se la cantano da soli. Inoltre rischia di saltare anche l’impegno dei partiti di rinunciare all’ultima tranche di pagamenti prevista per quest’anno.
Più coraggio ha mostrato Antonio Di Pietro che prima ha lanciato un referendum per l’abrogazione della legge attuale, poi ha promesso di devolvere i rimborsi garantiti all’Italia dei Valori al Ministero del Lavoro.
L’impressione di sfiducia resta comunque molto forte: dopo gli scandali Lusi e Belsito, accusati di fare uso privato del denaro delle casse di partito, i politici che sostengono la maggioranza avrebbero dovuto calcare la mano e cercare un accordo più coraggioso.
Merce rara, ai giorni nostri, il coraggio sugli scranni del Parlamento.

Alberto Donadeo